I social dopo Trump: free speech is not free reach

Mercoledì 20 gennaio 2021 Donald Trump lascia la Casa Bianca (qui si può seguire l’insediamento di Joe Biden e Kamala Harris) e una questione irrisolta: chi e come può e deve valutare se i contenuti diffusi sui social media sono leciti? Chi e come può e deve intervenire? La cancellazione degli account del Presidente decisa da Facebook e Twitter dopo l’assalto al Campidoglio dell’Epifania ha aperto una ferita nella comunicazione digitale che non si rimarginerà certamente con l’uscita di scena del 45° Presidente degli Stati Uniti. Il Social Trump Gate non finisce certo con lui e probabilmente sarà ricordato come il punto di svolta nella relazione tra Governi e Digital Giants ormai detentori di un enorme potere globale.

Dietro il fatto di cronaca, scaldato da eventi eccezionali, c’è un tema di visione e di governance del nuovo mondo digitale che va oltre gli schieramenti ideologici su un personaggio abile a usare la tendenza alla polarizzazione propria dei social e dei loro algoritmi. Ora che comincia il dopo Trump si può quindi ragionare più serenamente su un problema che non si risolve certo con il suo viaggio di ritorno da Washington a Mar-a-Lago, Florida. Se il problema non è più lui, dove sta il problema?

Ho pensato di chiederlo a Stefano Quintarelli, imprenditore e intellettuale ben noto a chi frequenta Internet e il digitale, perché è stato lui nel 2015, quando era deputato, a mettere la prima firma in una mozione (poi approvata dalla camera) per promuovere la Costituzione del Web, una Carta dei diritti e dei doveri della Rete considerata “uno strumento imprenscindibile per promuovere la partecipazione individuale e collettiva ai processi democratici”. Ha scritto poi due libri per raccontare come “Costruire il domani” e per spiegare che cos’è il nuovo “Capitalismo Immateriale”. Anticipo subito che Quintarelli va oltre Trump, come mi aspettavo, e riconduce la questione a una logica che stempera molti toni inutilmente polemici.

Photo by visuals on Unsplash

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“Se io vedo qualcuno che sta aggredendo una donna, penso sia giusto dargli una mazzata per fermarlo. Dopo capisco che ho fatto male, perché sarebbe stato un intervento di competenza della polizia”, attacca Quintarelli per concretizzare un’affermazione appartenente pilatesca: “È una cosa buona che abbiano rimosso gli account di Trump, ma hanno fatto male a rimuoverli”. E non è questione di vuoto normativo. Dove sta allora il problema? Quintarelli lo seziona in tre punti.

1. Free speech is not free reach. 

Se democrazia è libertà di espressione, lquesto diritto cambia in base alla dimensione dell’audience. “Un tempo il massimo del tuo pubblico potevi raggiungerlo andando allo Speakers’ Corner di Hyde Park”, ricorda Quintarelli. “Oggi chiunque può raggiungere milioni di persone, come prima potevano fare solo gli editori. Cambia quindi anche la responsabilità”. A maggior ragione se ile tuo account sociale è POTUS (Presidente of the United States). “Le norme ci sono ma sono inadeguate. Andrebbe introdotta una gradualità correlata alle dimensioni dell’audience. Non sta scritto da nessuna parte che uno possa dire quel che vuole quando ha 88 milioni di follower”. Come dice Peter Parker-l’Uomo Ragno, da un grande potere derivano grandi responsabilità. Applicato nel mondo digitale: a grande audience corrispondono grandi responsabilità. In altre parole: se sei un influencer, vali di più. Nel bene e nel male. 

2. La responsabilità è degli utenti e non delle piattaforme. 

“Si tirano sempre in ballo le piattaforme ma bisognerebbe tirare in ballo gli utenti”, dice Quintarelli, che argomenta: “Di fronte a contenuti manifestamente illeciti, l’intermediario deve toglierli, se ne viene a conoscenza. Ma questo è un intervento di primo livello che non può rappresentare la soluzione di fronte ai miliardi di utenti che popolano i social”. Anche perché le piattaforme fanno questo lavoro di controllo con sistemi di intelligenza artificiale che spesso sbagliano nella valutazione di un’immagine o di un’espressione, come ormai è stato provato (un classico è il dipinto “L’origine della vita” scambiato dall’algoritmo per un’immagine pornografica). “Qui entra in gioca la responsabilità degli utenti, che devono essere identificabili”. Bisogna prestare molta attenzione a questa parola: identificabili e non identificati. 
Non serve, come periodicamente viene proposto da qualcuno, la carta di identità per avere un account social. “Purtroppo prevale ancora, soprattutto nel dibattito politico, la logica bianco/nero, una visione totalizzante che non funziona nel mondo digitale”, lamenta Quintarelli, che immagina qualcosa di diverso: l’obbligo di essere identificabili solo per chi supera un certo numero di follower. “Si può fare con strumenti di garanzia che esistono già a livello europeo, proteggendo l’anonimato”. Come succede quando utilizziamo il wifi dell’aeroporto o in palestra: nessuno ci chiede documenti, ma se facciamo qualcosa di illecito veniamo individuati. Il principio è lo stesso che vale per il domicilio: le forse dell’ordine sanno dove abitiamo, ma possono entrare in casa solo nei casi previsti dalla legge, che sono ovviamente collegati a reati.

3. La rimozione dei post non l’unica soluzione per le piattaforme 
“Solo chi non conosce come funzionano i social si batte pro o contro la rimozione dei post ritenuti illeciti. Sono stati già fatti esperimenti per limitare la viralità di alcuni contenuti su Facebook, intervenendo sui tempi di esposizione e sulla velocità di diffusione”, spiega Quintarelli. La rimozione di un post, quindi, non è sempre necessaria e dovrebbe essere considerata una soluzione estrema, perché le piattaforme social hanno nel loro meccanismo di funzionamento ben altri strumenti per contrastare contenuti violenti o offensivi. “Basterebbe introdurre delle frizioni nella circolazione se il sistema rileva automaticamente qualcosa di illecito, in modo da ridurne l’impatto prima che ci sia un intervento e una valutazione umani”, propone Quintarelli. 

Conclusione: gli Stati devono adeguare le leggi esistenti

“Noi abbiamo diritto a mentire, in sé la menzogna non è un reato”, dice provocatoriamente Quintarelli. “Ma è un illecito causare un danno mentendo”. Che è quel che ha fatto Trump: inquinare l’ambiente sociale con falsità evidenti diffuse da una persona con una influenza enorme. “C’è un caso però in cui la menzogna è reato di per se: l’agiotaggio informativo”, aggiunge Quintarelli. “Non occorre che il prezzo di un’azione cambi, basta la falsità. È quel che ha fatto Trump non su una persona o un’azienda ma su un’intera società”. Ma chi avrebbe dovuto punirlo? “Se tu inquini il lago in cui io pesco, io ti denuncio”, è l’immagine proposta da Quintarelli. 

On line quindi non si dovrebbe procedere d’ufficio. Se vengono accertate le falsità e le responsabilità, potrebbe scattare una sanzione economica quantificata in base all’audience: 5 centesimi a follower, propone Quintarelli. Se ci fossero queste regole, Trump avrebbe dovuto pagare 44milioni di dollari. Forse ci avrebbe pensato due volte prima di postare e forse ci penserebbero molto più di due volte tutti quelli leoni da tastiera che dietro l’anonimato insultano o diffamano. 

La questione non è semplice ma è aperta. Le norme ci sono, semmai sono inadeguate, abbiamo già detto. Per adeguarle devono intervenire gli Stati nazionali, nonostante le piattaforme siano globali, sostiene Quintarelli. “Per le ragioni di audience e di gradualità che abbiamo visto non avrebbe senso mettere sullo stesso piano Malta, per esempio, o gli Stati Uniti”. Chi ritiene di essere stato offeso o di avere letto una falsità può fare una denuncia, ci sono i tre gradi di giudizio, arriva la sanzione civile. Le piattaforme digitali sarebbero sgravate da un enorme responsabilità, ma gli uffici giudiziari potrebbero reggere l’onda d’urto? Ma questo è un’altra questione 

(articolo pubblicato su EconomyUp, gennaio 2021)

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