L’intelligenza artificiale non è un microonde, ma un modo per risolvere problemi

 Ci sono storie che aiutano a comprendere le fatiche, la tenacia e l’investimento emotivo che ci sono dietro una tecnologia più di centinaia di pagine di analisi, report e ricerche.

In un periodo in cui si parla di intelligenza artificiale per l’entrata in vigore dell’AI Act europeo, almeno in una prima parte, che è tutto costruito sulla prevenzione dei rischi, mettendo in secondo piano le potenzialità anche positive dei sistemi di generative AI, la storia di Regina Barzilay è un prezioso calmante per l’ansia diffusa generata dalla presunta minaccia delle macchine alla sopravvivenza del genere umano.

È una delle dieci proposte nel libro “Intelligenza artificiale. Come usarla a favore dell’Umanità” scritto da Gabriele Di Matteo ed Eugenio Zuccarelli, un giornalista di esperienza e un giovane talaneto della data analysis che si sono messi insieme per proporre una lettura positiva e propositiva della rivoluzione appena cominciata. “Raccontare l’intelligenza artificiale è come fotografare un ghepardo in corsa”, scrivono.

“Il nostro libro vuole porsi al centro del crocevia fra opportunità, rischi e normatica etica, per fornire ai lettori una “cassetta degli attrezzi” per rendere l’AI un servizio a beneficio dell’umanità. Non vogliamo esaltarci troppo né preoccuparci oltre misura, ma semmai provare a suggerire una strada coerente per un impiego dell’AI in ogni industria, che sia destinato a migliorare il mondo del lavoro, la ricerca, l’istruzione, la società e che finisca per regalrci più tempo libero. La cosa più preziosa, secondo le ricerche, per le nuove genrazioni”.

Tra gli attrezzi per muoversi nei diversi settori che saranno trasformati dall’AI, dall’agricoltura alla comunicazione, dall’educazione alla pubblica amministrazione, ci sono diverse storie e interviste (da Sam Altaman a Reid Hoffman, da Elon Musk a Federico Faggin) e tra queste quella forse meno conosciuta e per questo più preziosa della professoressa del MIT Regina Barzilay, che ci porta dritti in un ambito fondamentale e delicato come quello della salute.

Regina nasce in Moldavia, ventenne si trasferisce con la famiglia in Israele dove si laurea prima di ottenere un PhD in Computer Science alla Columbia University. Diventa docente del Massachusetts Institue of Technology, nel 2017 riceve il premio dei geni (MacArthur Frant) per il suo lavoro sull’intelligenza artificiale. Nel 2014, però, le hanno diagnosticato un tumore al seno e lei si è resa conto che i segnali erano presenti già negli esami fatti anni prima. Come poterli utilizzare per prevenire e fermare il male? Non può che pensare all’intelligenza artificiale, la sua specialità.

Il tumore al seno, lo sappiamo, è quello più diagnosticato nelle donne. La domanda che ossessiona la professoressa e il suo team è: possiamo creare un modello di machine learning che riesca a prevedere l’insorgenza del tumore al senso utilizzando solo delle mammografie? Parliamo di immagini e Regina è una dei massimi esperti di Natural Language Processing e Computer Vision, proprio la creazione di modelli basati su dati no strutturati, come testi o immagini.

Raccogliere dati in campo sanitario, però, non è facile. Ci sono questioni di privacy, vincoli etici e timori per la sicurezza.”È molto più semplice non condividere i dati, ed evitare problemi che ne possono derivare, piuttosto che assumersi la responsabilità ma contribuire allo sviluppo di soluzioni che salvano vite”, scrivono nel libro DI Matteo e Zuccarelli. Ovviamente Regina riesce nel suo obiettivo e creare un database di oltre 100mila pazienti grazie alla collaborazione con ilo Massachusetss General Hospital.

È nato così l’algoritmo di Barzilay, che è riuscito a identificare il 31% dei pazienti “ad alto rischio” contro il 18% dello standard clinico. Ci sono, quindi, 13 donne su 100 che hanno avuto la possibilità di fermare il male in tempo.

Affrontare la rivoluzione dell’intelligenza artificiale dividendosi fra guelfi e ghibellini, apocalittici e integrati (il libro di Umberto Eco veniva pubblicato esattamente 60 anni fa), tra tecnofanatici e catstrofisti (i doomer, doomer, termine che deriva da doom – catastrofe- e viene usato per definire una persona che vede gli effetti negativi della vita, sia nel mondo reale sia online, un po’ depresso e un po’ arrabbiato) è inutile, dannoso e poco intelligente.

“L’intelligenza artificiale non è un microonde, è piuttosto un modo per risolvere problemi, oppure prendersi cura di compiti e lo fa trasformando costantemente le sue capacità, prendendo informazioni dal suo output e recupernadolo come momento di miglioramento della sua performance”, dice Luciano Floridi nel libro. L’intelligenza artificiale non è un prodotto, ma un servizio. Tocca all’homo sapiens dimostrare di saperne fare buon uso.

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